
La città proibita: Kung fu all’italiana, cuore a metà

Gabriele Mainetti torna dietro la macchina da presa e, dopo i superpoteri di borgata con Lo chiamavano Jeeg Robot e i freak da circo in chiave bellica con Freaks Out, decide di cambiare ancora tutto. Stavolta ci porta nel cuore di una Roma che si tinge d’Oriente con La città proibita, un action kung fu all’italiana che – sorpresa – ci crede tantissimo. Forse pure troppo.
Kung fu, botte da orbi e un po’ di overacting
Partiamo dalla regia, perché va detto: La città proibita è forse il primo vero film italiano che si butta a capofitto nell’action marziale con una certa dignità. Le scene di combattimento sono coreografate con cura, girate con eleganza e – miracolo – si capisce chi tira pugni a chi, cosa che pure a Hollywood a volte dimenticano.
La scelta di Yaxi Liu nei panni di Mei è azzeccatissima dal punto di vista fisico: salta, picchia, rotola, mena, insomma fa tutto. Ma quando tocca parlare, in una scena soprattutto, ogni tanto la recitazione scivola nella soap opera pomeridiana, con picchi di espressioni da “sto per urlare o per piangere, ma intanto mi tremano le sopracciglia”. Il kung fu è vero, l’emozione un po’ meno.
Il cast tiene botta (letteralmente)
Enrico Borello nei panni di Marcello, Marco Giallini in versione Annibale (no, non quello con gli elefanti) e Sabrina Ferilli come Lorena sono decisamente in forma. Giallini ci mette il suo solito cinismo romanesco, la Ferilli è una garanzia e Borello fa il suo, anche se ogni tanto sembra un po’ spaesato. Insieme funzionano, come un team improvvisato ma con cuore.
Trama? Sì, ma…
La storia parte bene: misteri, sorelle scomparse, atmosfere intriganti. Poi, a metà film, qualcosa comincia a scricchiolare. Come se qualcuno avesse premuto il tasto avanti veloce sullo sviluppo narrativo. Alcuni snodi importanti vengono risolti con la stessa enfasi con cui si chiude un pop-up fastidioso: clic e via. E il confronto "finale" tra Mei e Chunyu Shanshan? Doveva essere epico… invece è una scazzottata con meno tensione di una lite al bar.
E la musica?
Ti accompagna, ti sostiene, c’è... ma alla fine non ti rimane in testa neanche una nota. Zero motivetti da fischiettare, zero “ma quanto era bella quella musica lì?”. Un po’ come l’amico che ti aiuta a traslocare ma poi sparisce prima di montare l’IKEA.

In parole brevi
La città proibita è un film che osa. E gliene va dato merito. Ma non riesce ad arrivare dove voleva. È un degno erede nella filmografia di Mainetti, ma non ha la potenza sorprendente di Jeeg né l’impatto emotivo di Freaks Out. È un film che corre, combatte, salta... ma inciampa nella seconda metà. Mainetti, te lo diciamo con affetto: facci sto crossover. Immagina Jeeg che arriva a dare una mano a Mei, tipo team-up stile Avengers. Solo che al posto di New York, lo scontro finale si fa a Tor Bella Monaca.