
Dogman: Un uomo, un cane, un cartone che non ti aspetti

Un cane-uomo?
Un clone cucciolo di un gatto arancione?
Un cartone per bambini che parla di abbandono e genitorialità?
Sì. E sorprendentemente… funziona.
Peter Hastings, già dietro al delirio colorato di Capitan Mutanda, torna con Dogman e mette in scena una storia che sembra uscita da una scatola di cereali per bambini ma che, a sorpresa, sa anche toccare corde più profonde.
La trama: canina fuori, umana dentro
Il mondo ha bisogno di un poliziotto efficiente. Nasce così Dogman, frutto di un esperimento assurdo, corpo di un poliziotto e testa del suo cane, ostacolano un gatto parlante che vuole conquistare la città e dalla sua versione in miniatura (non chiedere). Il tono? Frizzante. L’umorismo? Slapstick. Ma sotto sotto, Dogman racconta di legami familiari, distacchi, senso di identità e crescita personale.
Non ti aspetti nulla, ti ritrovi con un cartone che ti parla – con leggerezza – del dolore di essere dimenticati o lasciati indietro.
E non lo fa mai con pesantezza, ma con una leggerezza consapevole, che è merce rara.
Regia iperattiva, montaggio turbo e baloon a profusione
La regia di Hastings è un frullatore acceso: zoom, colori sparati, vignette in stile fumetto, musica accattivante… ma tutto è perfettamente al suo posto.
Messaggi per chi sa ascoltare (anche se ha le orecchie a punta)
Dogman non parla ai TikTok-dipendenti. Parla a chi ha ancora voglia di ascoltare una favola. E in mezzo a pesci robotici assassini da cartone animato, ti trovi riflessioni vere: essere genitori, essere figli, affrontare le proprie paure.
E no, non serve aver sei anni per capirli.

In parole brevi
Dogman non cambierà la storia dell’animazione. Ma è una sorpresa. Un film che non insulta l’intelligenza dei bambini, né quella degli adulti che li accompagnano. Fa ridere, fa riflettere, e soprattutto fa sentire un po’ meno cinici.